Carte prepagate: 26 milioni di italiani le usano. Ma quanto costano?

Le carte prepagate sono più utilizzate di quelle di credito: 26 milioni di italiani le usano regolarmente, e negli anni compresi fra il 2003 e il 2017 la loro diffusione in Italia è cresciuta mediamente del 30% anno su anno. Esistono due macro-categorie di carte prepagate, quelle tradizionali, che offrono ai proprietari funzionalità base, e le cosiddette avanzate o carte conto, che a differenza delle prime sono dotate di un Iban e consentono di effettuare operazioni più complesse, come bonifici e addebito di utenze.

Spesso si tende a pensare che le carte prepagate siano prodotti a costo zero. In realtà raramente è così, e se non si fa attenzione a come vengono utilizzate, la spesa potrebbe essere salata.

Più di 4 milioni l’hanno avuta a 18 anni

È quanto emerge da un’analisi realizzata per Facile.it dall’istituto mUp Research in collaborazione con Norstat, su un campione rappresentativo della popolazione italiana adulta. Secondo la ricerca a utilizzare le prepagate con più frequenza sono le donne (63% rispetto al 57% degli uomini), i consumatori con età compresa tra i 18 e i 34 anni (67%) e i residenti nelle regioni del Sud Italia e Isole (65%). Il successo di questo strumento di pagamento presso il pubblico più giovane è confermato anche da un altro dato. Se infatti si guarda all’età in cui è stata ricevuta la prima carta prepagata emerge che sono più di 4 milioni gli italiani che dichiarano di averla avuta a 18 anni.

Limiti e disponibilità

Le carte prepagate, a differenza delle altre carte elettroniche, sono caratterizzate da limiti di natura operativa spesso abbastanza stringenti: importo massimo di ricarica e pagamento, numero di prelievi consentiti, somma prelevabile per ciascuna operazione e giornata, eccetera. Il consiglio è quindi di leggere con attenzione i fogli informativi prima di scegliere la carta prepagata, e assicurarsi che il numero di operazioni consentite corrisponda alle proprie esigenze.

Quanto costa usare una prepagata?

Il primo costo da considerare, riporta Askanews, è quello legato al rilascio della carta: una spesa una tantum che varia da 5 a 10 euro. A cui a volte si aggiunge anche una prima ricarica obbligatoria. In questo caso l’impegno economico è nell’ordine di 5-10 euro. Le carte prepagate dotate di Iban, soprattutto se abilitate a effettuare bonifici, hanno poi un canone annuale, in media tra 10 e 15 euro l’anno, che in alcuni casi può arrivare anche a 24 euro. Tra gli altri costi variabili vi è quello per la ricarica della carta, che se effettuata a uno degli sportelli fisici delle filiali della banca emittente può arrivare fino a 3 euro. O quello relativo al prelievo di denaro. Presso un ATM della banca emittente il costo varia tra 1 e 2 euro, ma aumenta se avviene presso un ATM di un altro operatore o presso uno sportello fisico. In questo caso si parte da 2 euro fino ad arrivare anche a 5 euro.

 

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Gli italiani stringono la cinghia, soprattutto al Nord

La lotta tra la ripresa dei consumi e l’incertezza del futuro è impari, e gli italiani sono pronti a stringere la cinghia. Il 70,5% di loro è infatti convinto che nei prossimi dodici mesi non potrà spendere di più per i consumi. Il dato risulta più alto nei territori con una maggiore capacità di spesa, il 75,9% al Nord-Ovest, il 69,4% al Nord-Est, il 67,3% al Centro e il 68,8% al Sud.

Il potere d’acquisto delle famiglie rimane quindi basso, e non è ancora tornato ai livelli pre-crisi, segnando un -6,3% nel 2017 rispetto al 2008. Il tutto genera la mancanza di modelli di riferimento e un atteggiamento egoistico, amplificato dall’uso compulsivo dei social network.

I consumi stentano e i soldi restano fermi

È quanto emerge dalla ricerca Miti dei consumi, consumo dei miti realizzata dal Censis, in collaborazione con Conad, nell’ambito del progetto Il nuovo immaginario collettivo degli italiani. Dal rapporto, che fornisce un ritratto delle famiglie italiane al tempo del ritorno della recessione, risulta che i consumi continuano a stentare, e nel 2017 si attestano su un -2% rispetto al 2088. Inoltre, in una situazione di difficoltà di spesa i soldi restano fermi, e la liquidità è aumentata del 17,1% nel periodo 2008-2018.

La radice egoistica dell’egopower

Il mistero dei consumi che non ripartono non può essere spiegato solo dai redditi stagnanti e dall’incertezza, ma anche dall’emergere di una sorta di radice egoistica dell’egopower, il potere dell’ego. “Se la società è incattivita e ostile, allora tanto vale pensare a me stesso e alla mia famiglia”, si legge nel rapporto.

L’uso delle piattaforme digitali, poi, amplifica a dismisura la tendenza a pensare solo a se stessi. A oggi sono 9,7 milioni gli italiani compulsivi nell’uso dei social network, pubblicando di continuo post, foto, video per mostrare a tutti quello che fanno ed esprimere le loro idee, mentre i “pragmatici”, coloro che li usano per ampliare i propri circuiti relazionali, sono 12,4 milioni.

Il 90,8% degli italiani non ha modelli a cui ispirarsi

Tra gli altri utilizzatori dei social network 13,2 milioni sono definiti “spettatori”, nel senso che con regolarità leggono i post e guardano le foto degli altri, riporta Askanews, ma intervengono poco o per niente in prima persona.

Il primato dell’egopower però uccide anche i miti: il 90,8% degli italiani non ha modelli a cui ispirarsi, e il 49%, una percentuale che sale al 53,3% tra i più giovani, è convinto che oggi chiunque possa diventare famoso. Un immaginario collettivo in cui tutti sono divi o possono diventarlo, e allora nessuno lo è più.

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Digital e green economy, i settori del lavoro di domani

Quali sono i due settori che più di tutti traineranno l’occupazione nei prossimi anni? La Digital Transformation e l’Ecosostenibilità, due macro-categorie all’interno delle quali rientrano lavori e professionalità differenti. E che in totale dovrebbero assorbire da sole circa il 30% del fabbisogno occupazionale previsto per il 2019-2023, stimato, complessivamente, tra i 2,5 e i 3,2 milioni di unità.

Lo sostiene l’ultimo Rapporto Excelsior di Unioncamere e Anpal sugli scenari di sviluppo a medio termine nel mercato del lavoro.

Big Data Analyst, Cyber Security Expert, Social Media Marketing Manager

A trainare la domanda delle aziende saranno i protagonisti della rivoluzione digitale (Big Data, intelligenza artificiale, Internet of Things), e la necessità di riconvertire impianti e flussi di lavoro per renderli ecologicamente avanzati. Secondo le previsioni del Rapporto,  la imprese della digital revolution dovrebbero ricercare tra 210mila e 267mila lavoratori con specifiche competenze matematiche e informatiche, digitali o 4.0. Quindi, esperti nell’analisi dei dati, nella sicurezza informatica, nell’AI, e nell’analisi di mercato. Come Data Scientist, Big Data Analyst, Cloud Computing Expert, Cyber Security Expert, Business Intelligence Analyst, Social Media Marketing Manager e Artificial Intelligence Systems Engineer.

Fino a 600mila lavoratori green

Ancora più in alto si spingerà la green economy, con cui viene indicata la svolta eco-sostenibile dei settori produttivi, industriali e no. Qui la quota di occupati dovrebbe oscillare tra i 480mila e i 600mila lavoratori, ricercati dalle imprese soprattutto per sfruttare efficacemente le opportunità offerte dall’economia circolare, riferisce Skuola.net. Ci sarà spazio per figure tradizionali, declinate però in maniera diversa rispetto al passato, ma soprattutto per nuove professionalità. Alcuni esempi? L’esperto in gestione dell’energia, il chimico del verde, l’esperto di acquisti verdi, del marketing ambientale, l’installatore di impianti a basso impatto ambientale. I cosiddetti green jobs.

La maggior parte degli impieghi sarà in sostituzione

Allargando il discorso ai macro-settori, la quota maggiore di occupati verrà assorbita nel comparto dei servizi alle imprese, con una richiesta che potrebbe variare tra le 608mila e le 699 mila unità. A seguire i servizi sanitari e dell’istruzione (da 513mila a 629mila unità). Terzo posto per l’industria manifatturiera, che avrà bisogno di un numero di occupati compreso tra le 333 mila e le 471 mila unità. Molto, però, dipenderà dall’andamento dell’economia nazionale e internazionale, e soprattutto dal consistente turnover generazionale. Oltre tre quarti del fabbisogno occupazionale sarà collegato alle sostituzioni di lavoratori in uscita (2,1-2,3 milioni di unità). Mentre la crescita economica genererà, in maniera differenziata nei diversi settori, una quota di nuovi posti di lavoro tra le 427mila e le 905mila unità.

 

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Imprese italiane, sempre meno giovani al comando

L’imprenditoria italiana è giovane? Mica tanto, o meglio non più. In base ai dati rilevati da Unioncamere-InfoCamere sulle persone con carica di amministratore nelle imprese italiane negli ultimi cinque anni, pare proprio che ci siano sempre meno giovani al timone delle aziende tricolori.

In calo il numero degli ad under 50

L’elaborazione condotta da Unioncamere-InfoCamere indica che tra marzo 2013 e marzo 2018 le cariche di amministratore nelle imprese del nostro Paese sono cresciute di circa 48mila unità, ma continuano a diminuire i giovani al comando.  In totale, infatti, nei 5 anni presi in esame la percentuale di amministratori con più di 50 anni è passata dal rappresentare il 53,3 al 61% del totale delle cariche, con una perdita invece di 7,7 punti percentuali per quella degli under 50.

Più dinamiche le classi dirigenziali “mature”

I dati rivelano che sono molto più dinamiche le classi dirigenziali mature rispetto a quelle giovani. Al 31 marzo di quest’anno, riporta Adnkronos, gli amministratori di imprese in Italia sono 3,8 milioni, quasi 50 mila unità in più rispetto alla stessa data di cinque anni fa. Questo movimento si riferisce però alle classi di età degli over 50, mentre i capitani d’impresa giovani segnano il passo. Tra il 2013 e il 2018, gli amministratori tra i 50 e 69 anni sono aumentati di 194mila e in quella degli over 70 di altre 125mila, per una crescita complessiva di 319mila unità per l’insieme degli over 50. Dall’altro lato, invece, i numeri sono in negativo. Gli amministratori con un’età inferiore a 50 anni a fine marzo di quest’anno erano 1,5 milioni, ovvero con una contrazione di di oltre 270mila unità negli ultimi 5 anni (il 15% in meno rispetto al 2013). Di questi,  251 mila appartengono alla classe tra i 30 e i 49 anni e 20 mila a quella under 30.

Italia divisa in due, meglio il Sud del Nord

Ci sono anche delle significative differenze geografiche. I dati evidenziano che nelle ripartizioni del Centro e del Mezzogiorno si assiste complessivamente ad una crescita nel numero degli amministratori (79mila in più nei 5 anni in esame, di cui 30mila al Centro e 49mila al Sud). Negativo invece l’andamento nelle circoscrizioni settentrionali, con una riduzione più lieve nel Nord-Est (-8mila unità, -1,0%) e più rilevante nel Nord-Ovest (-24mila unità, -2,0%).

Gli over spopolano in tutta Italia

Nonostante le diversità fra Nord e Sud, si assiste però a una costante:  lo spostamento della distribuzione per età della popolazione verso le classi più anziane coinvolge l’intero territorio nazionale.

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Nel 2017 le emissioni di gas serra diminuiscono dello 0,3%

Se il Pil del nostro Paese registra un incremento pari a 1,5% le emissioni di gas serra diminuiscono dello 0,3%. Le prime stime delle emissioni nel 2017 mostrano infatti un andamento che sembra confermato anche nel primo trimestre del 2018. Ed è coerente con il trend degli anni passati: già nel 2016 le emissioni totali di gas serra erano diminuite del 17,5% rispetto al 1990, passando da 518 a 428 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, e dell’1,2% rispetto all’anno precedente.

Il principale contributo alla diminuzione delle emissioni di gas serra negli ultimi anni è da attribuire alla crescita della produzione di energia da fonti rinnovabili (idroelettrico ed eolico), e all’incremento dell’efficienza energetica nei settori industriali.

L’obiettivo dell’Ue al 2020 prevede il 20% dei consumi energetici da fonti rinnovabili

Si tratta di alcuni dati contenuti nell’Inventario nazionale delle emissioni in atmosfera dei gas serra, presentato a Roma dall’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale). Per quanto riguarda gli obiettivi futuri di riduzione delle emissioni di gas serra al 2020, l’Unione Europea prevede il raggiungimento di una quota del 20% di fonti energetiche rinnovabili rispetto al totale dei consumi energetici, riporta Adnkronos. E il pacchetto per il clima e l’energia 2020 prevede per l’Ue un miglioramento del 20% dell’efficienza energetica rispetto allo scenario ‘business as usual’, e una riduzione del 20% delle emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 1990.

… e del 40% delle emissioni entro il 2030

Gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra al 2030 sono definiti dal pacchetto Unione dell’energia, che prevede una riduzione delle emissioni di gas a effetto serra del 40% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Per raggiungere l’obiettivo i settori interessati dal sistema di scambio di quote di emissione (Ets: edilizia, agricoltura, rifiuti e trasporti) dell’Ue dovranno ridurre le emissioni del 43% (rispetto al 2005), e quelli non interessati dall’Ets del 30% (rispetto al 2005). Ciò dovrà essere tradotto in singoli obiettivi nazionali vincolanti per gli Stati membri.

Entro il 2020 l’Italia deve ridurre le emissioni dei settori industriali del 13%

Per il raggiungimento di tali obiettivi, a livello Europeo, sono stati adottate la direttiva Eu-Ets per la riduzione delle emissioni di gas serra dei grandi impianti dei settori energetico e industriale e dell’aviazione, e l’Esd (Effort Sharing Decision), che ripartisce, a livello nazionali, gli obiettivi per i settori che non rientrano nell’Ets.

Entro il 2020 l’Italia deve ridurre le emissioni da tali settori del 13% rispetto al 2005. Tale obiettivo, secondo l’Ispra, sarà molto probabilmente raggiunto: infatti negli anni dal 2013 al 2016 le emissioni di tali settori sono state pari in media a 272 Mt di CO2 equivalente, contro un obiettivo al 2020 pari a 291 Mt di CO2 equivalente.

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Istat, fatturato imprese mai così alto dal 2011

Buone, anzi ottime notizie per l’intero comparto dell’industria italiano. In base ai più recenti dati dell’Istat, infatti, il fatturato dell’industria, corretto per gli effetti di calendario, nel 2017 aumenta del 5,1%. Si tratta del valore più alto dal 2011, quando era pari al 6,8%.

Bene il manufatturiero

A registrare uno degli exploit migliori è il settore del manufatturiero, la cui crescita del fatturato in volume è pari al 3,3%. Sempre nella media del 2017 gli ordinativi segnano un aumento del 6,6% (dati grezzi).

Un anno in positivo

Come riporta l’agenzia LaPresse, in base ai dati raccolti dall’Istituto di Statistica il fatturato a dicembre 2017 ha segnato per il terzo mese consecutivo un incremento del 2,5% rispetto al mese precedente. L’indice destagionalizzato, pari a 110, raggiunge il livello più elevato da ottobre 2008. Nel quarto trimestre la crescita, rispetto al trimestre precedente, tocca il + 2,9%. Sempre a dicembre, gli ordinativi mostrano un deciso incremento del 6,5% rispetto a novembre e nel quarto trimestre l’aumento, sempre sui tre mesi antecedenti, è del 3,6%. Il merito del buon andamento del fatturato di dicembre va sia al mercato interno (+2,9%), sia a quello estero (+1,9%). Di segno più anche gli ordinativi: +7,6% per il mercato interno e +5,1% per quello estero. Il fatturato a dicembre cresce, inoltre, del 7,2% su anno, con incrementi del 7,3% sul mercato interno e del 7,1% su quello estero. Rispetto a dicembre 2016, l’indice grezzo del fatturato aumenta dello 0,7% grazie soprattutto  alla componente interna dell’energia. Incrementi sono registrati per tutti i settori, specie per il comparto manifatturiero, che aumenta del 17,6%. Nel confronto con il mese di dicembre 2016, l’indice grezzo degli ordinativi segna un aumento del 6,9% tendenziale. Tutti i settori, ad eccezione della metallurgia (-0,8%), registrano incrementi. Particolarmente significativi risultano quelli dell’elettronica (+22,6%) e delle apparecchiature elettriche (+21,4).

Prezzi al consumo in leggero aumento

L’Istat fotografa anche andamento dei prezzi al consumo: a gennaio 2018 l’indice nazionale dei prezzi, al lordo dei tabacchi, aumenta dello 0,3% su base mensile e dello 0,9% su base annua come a dicembre 2017. La stabilità dell’inflazione, segnala l’Istituto di Statistica, risente del rallentamento della crescita dei prezzi degli Alimentari non lavorati (+0,4%, da +2,4% di dicembre 2017), dei Beni energetici non regolamentati (+2,5% da +4,4%) e dei Servizi relativi ai trasporti (+1,3% da +2,8%), i cui effetti sono bilanciati dall’accelerazione dei prezzi degli Alimentari lavorati (+2,1% da +0,8%) e degli Energetici regolamentati (+6,4% da +3,7% del mese precedente). Su base annua la crescita dei prezzi dei beni sale lievemente a +1,3% da +1,1% di dicembre.

 

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Ore di lavoro settimanali, in Europa siamo al penultimo posto

Chi l’avrebbe mai detto? Gli italiani sono tra i meno stakanovisti sul lavoro: anzi, sono i penultimi in  Europa per monte ore lavorate in media a settimana. Al primo posto della classifica dei lavoratori più solerti ci sono gli inglesi, all’ultimo posto, dopo di noi, i danesi.

Italiani, ci manca un’ora e mezza

In base ai dati divulgati da Eurostat, un lavoratore dipendente a tempo pieno in Italia lavora in media 38,8 ore la settimana, circa un’ora e mezza in meno della media europea. Gli inglesi, in assoluto i lavoratori più indefessi, mettono a segno un monte ore che tocca le 42,3 ore la settimana in media, mentre più “pigri” di noi sono i danesi con 37,8 ore di lavoro a settimana in media.

Grandi differenze tra Pubblico Impiego e privato

Non si può fare di tutta l’erba un fascio, dice un proverbio. E in Italia è proprio così: sulla performance degli italiani pesa infatti l’orario di lavoro del pubblico impiego, fissato per contratto nel nostro Paese a 36 ore e in particolare i risultati del settore dell’educazione. Se si guarda all’industria, invece, i lavoratori dipendenti italiani con 40,5 ore medie lavorate alla settimana si trovano nella media europea (40,4) e risultano più ore in fabbrica anche rispetto ai tedeschi (39,8 ore).

La Pubblica Amministrazione abbassa la media

In merito al settore della Pubblica amministrazione, l’Italia è il Paese nel quale si lavorano meno ore la settimana (37,2 in media) a fronte delle 39,6 medie in Ue. L’Italia è ultima soprattutto per ore lavorate nel settore dell’educazione con 28,9 ore la settimana, circa dieci in meno della media Ue (38,1) e quasi 14 in meno del Regno Unito. Nel settore degli alberghi e della ristorazione i lavoratori dipendenti italiani sono impegnati in media 41,5 ore la settimana in linea con la media europea (più dei tedeschi che segnano 41,2 ore) mentre nel trasporto le ore lavorate sono 40,6 contro le 41,6 medie in Ue. Nel settore bancario e assicurativo i dipendenti italiani lavorano circa 39,4 ore (40,6 la media Ue). Nella sanità e servizi di cura i dipendenti sono impegnati per 37,5 ore in media, quasi due ore in media in meno rispetto alle 39,4 ore medie Ue (40,6 nel Regno Unito).

I lavoratori autonomi i più “sgobboni”

I lavoratori autonomi sono in assoluto quelli che macinano il maggior numero di ore di lavoro. In Italia gli indipendenti lavorano in media 45,8 ore la settimana a fronte delle 47,4 ore medie in Ue (54,1 in Belgio). Tra questi lavorano di più in Italia quelli con dipendenti (48,7 ore a fronte delle 50,1 medie in Ue) rispetto a quelli senza dipendenti (44,5 ore a fronte delle 46,1 medie Ue).

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Cibo, quanto spreco: in Italia bruciamo 960Kcal al giorno

In un momento in cui si parla sempre più spesso di controllo dello spreco di cibo, con un’opinione pubblica ogni giorno più sensibilizzata sull’argomento, l’Italia si conferma una nazione sì “sprecona”, ma anche tra le prime in Europa a dotarsi di una normativa ad hoc.

Nel mondo un terzo dei prodotti alimentari va sprecato

I numeri diffusi dalla Fao, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, sono impressionanti e mettono in luce un fenomeno che va arginato. In base ai dati dell’organizzazione, nel mondo un terzo della massa dei prodotti alimentari (un quarto se espressi in energia) è sprecato (1.6 miliardi di tonnellate, circa 660 kcal/procapite/giorno, per un valore di circa 700 miliardi di euro), dalla produzione al consumo. Lo spreco alimentare, riporta una nota pubblicata da Askanews, genera effetti socio-economici e ambientali molto significativi.

Inquinamento come conseguenza dello spreco

Ma c’è ancora di più, perché lo spreco alimentare genera emissioni di gas-serra per circa 3,3 miliardi di tonnellate (Gt) di anidride carbonica (CO2), pari a oltre il 7% delle emissioni totali (nel 2016 pari a 51.9 miliardi di tonnellate di CO2). Se fosse una nazione, lo spreco alimentare sarebbe al terzo posto dopo Cina e USA nella classifica degli Stati emettitori.

In Italia le prime leggi per contrastare il fenomeno

Come è accaduto in quasi tutti i paesi industrializzati del mondo, anche in Italia il problema dello spreco alimentare e dei suoi effetti è stato largamente sottostimato. Poi, complici anche i mutamenti socio-economici degli ultimi anni, i cambiamenti climatici e un’attenzione sempre maggiore alla sostenibilità in tutti i sensi, qualcosa è cambiato. Tra le priorità dell’ONU per lo sviluppo sostenibile c’è il dimezzamento (in energia alimentare pro capite) entro il 2030 degli sprechi globali in vendita al dettaglio e consumo e (genericamente) la riduzione di perdite in produzione e fornitura. E l’Italia, tra i pochissimi paesi dell’Unione Europea, ha approvata una delle prime leggi per normare e arginare questo problema.

Meno spreco alimentare, meno gas serra

Se il mondo riuscisse a ridurre lo spreco alimentare a livello globale, si avrebbe come diretta conseguenza una decisa riduzione di emissioni di gas serra. Un “tamponamento” che permetterebbe di tenere sotto controllo  alcuni degli impatti del cambiamento climatico, tra cui gli eventi estremi come alluvioni e prolungati periodi di siccità e l’innalzamento del livello del mare. Il primo rapporto tecnico condotto in Italia in materia,  “Spreco alimentare: un approccio sistemico per la prevenzione e la riduzione strutturali” a cura dell’Ispra, evidenzia che lo spreco alimentare in Italia, se misurato in termini energetici, rappresenti circa il 60% della produzione iniziale.

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